Zingari

Zingari
Ecco, è successo di nuovo. Il 27 agosto, in uno dei tanti squallidi campi rom che costellano la periferia della capitale, una baracca malamente assemblata con tavole di legno e cartone ha preso fuoco. L’incendio si è subito esteso a quelle vicine e un bimbo di tre anni è morto arso vivo nel suo lettino. I suoi giovanissimi genitori tenevano per tutta la notte alcune candele accese posate sul pavimento per allontanare i topi, i grossi ratti che razzolano nell’immondizia e che più di una volta hanno assalito a morsi i neonati negli accampamenti.

Altre volte erano state invece le esalazioni dei bracieri tenuti accesi d’inverno per scaldarsi, o il gelo delle notti di gennaio a uccidere i più piccoli. Una silenziosa strage degli innocenti che ha fatto negli anni decine di vittime.
Si parla tanto in questi ultimi tempi di emergenza rom, anche sull’onda dei provvedimenti di espulsione presi in Francia e delle divergenti dichiarazioni di ministri e cardinali. C’è nel nostro paese un clima di tensione e d’intolleranza chiaramente alimentato e cavalcato da certa destra e del tutto sproporzionato alle dimensioni reali del problema.
In Europa gli zingari, nelle loro variegate e spesso assai diverse tribù, sono circa 12 milioni. In Italia invece solo poco più dello 0,2 % della popolazione appartiene all’etnia rom e più della metà possiede la cittadinanza italiana.
Sono quindi circa 120.000 individui a fronte degli 800.000 in Spagna, dei 4-500.000 in Grecia, paese tanto più piccolo del nostro, dove comunque, pur tra mille difficoltà, riescono a trovare spazi in cui inserirsi e soprattutto sono trattati con maggiore umanità.
Eppure come al solito la presenza del diverso, percepito come un pericolo, viene enfatizzata e ingigantita dalla pubblica opinione.
Una dozzina di anni fa, l’Opera Nomadi mi richiese un progetto di scolarizzazione per ragazzi rom. In quella occasione ho avuto la possibilità di visitare il famigerato Casilino 700, che con quasi un migliaio di “ospiti” era allora il campo più grande d’Europa. Un posto orrendo, senza un albero, senza una macchia d’ombra d’estate; del resto altro non era che il vecchio aeroporto dismesso di Centocelle.
Nella spianata disseminata di cumuli di rifiuti, le baracche e le roulotte scalcagnate si disponevano a macchia di leopardo, a seconda delle differenze di origine, di lingua e di religione: da un lato i Khorakhanè mussulmani, poi i Rudari, i Gagikane e altri ancora.
Non c’era acqua corrente e l’elettricità veniva rubata dai pali della luce sulla Casilina servendosi di fili volanti, sulla cui visibilissima esistenza gli amministratori della locale circoscrizione chiudevano spesso gli occhi. C’era allora un’amministrazione di sinistra; Centocelle è un vecchio quartiere proletario e credo di esser stata chiamata per l’ultima volta “compagna”, con mio notevole imbarazzo, proprio da un anziano assessore durante una riunione in una scuola.
Solo Medici senza frontiere teneva aperto periodicamente un piccolo ambulatorio sul posto, gestito da una dottoressa; il lavoro da fare con le donne era infatti enorme e certo sarebbero stati necessari mezzi ben più consistenti.
Ora il Casilino è stato smantellato, i suoi abitanti in parte rimpatriati, in parte divisi tra le decine di accampamenti illegali che come funghi spuntano e appassiscono nei luoghi più degradati intorno alle nostre città. Sono ormai solo tristi parodie di quelli che erano i campi sosta di questa gente, quando erano ancora nomadi e si spostavano portando il loro lavoro e i loro prodotti dove erano richiesti, a seconda del tempo e delle stagioni. Fabbri, maniscalchi, giostrai, venditori ambulanti e anche, nell’Est, raccoglitori stagionali di frutta, sensali nei mercati di cavalli, fino a quando la perdita di questi spazi vitali di attività in cui inserirsi li ha costretti a una squallida sedentarietà.
Non sono più nomadi i figli del vento, la globalizzazione, l’informatizzazione li hanno tagliati fuori dal mercato del lavoro e le guerre nell’ex Yugoslavia hanno completato questa opera di demolizione spingendo decine di migliaia di disperati sulle vie dell’emigrazione.
Sfugge ai gagè la grande difficoltà che una popolazione con lingua e competenze poco appetibili sul mercato del lavoro può trovare nella ricerca di una stabile occupazione. Ugualmente manca ai rom la consapevolezza dell’errore intrinseco nell’uso a loro comune di una doppia morale, una interna al gruppo e rispettosa delle sue regole, un’altra assai meno corretta riservata agli estranei.
Per questo quella che è oggi la più grande minoranza europea, presente fra noi da almeno sette secoli, si è trovata ad affrontare con sempre maggior frequenza il pregiudizio e l’emarginazione. Troppo rapidamente è stato dimenticato il dramma della Shoah che ha divorato, come loro dicono, mezzo milione di rom nei crematori; il debito che l’occidente ha verso di loro non è mai stato pagato e non a caso sono gli ebrei i più sensibili alle necessità di questo popolo che ha tra gli altri problemi quello di non avere una memoria scritta, ma solo una tradizione orale.
Chi ha avuto la fortuna di assistere a uno dei concerti in cui collaboravano Moni Ovadia e Alexian Santino Spinelli se ne sarà certamente reso conto. Spinelli è oggi il principale ambasciatore del popolo rom in Italia; musicista di vaglia, laureato in lingue, docente universitario di lingua e cultura romanì rappresenta, a mio parere, il meglio dell’integrazione. Perchè ormai è evidente che a questo si deve mirare, per non trasformare in un problema di ordine pubblico un popolo di dodici milioni di individui, con ben cinque milioni di bambini, che per il nostro continente dalle tante culle vuote potrebbero essere una importante risorsa nel futuro.
È vero che la diversità dei rom ci spaventa più di quella di altri stranieri, da sempre prigionieri del doppio stereotipo dello zingaro brutto, sporco e cattivo e dello zingaro libero, artista, figlio del vento. Oggetti di interventi che non riescono a uscire dalla logica dell’assistenzialismo o della repressione. Ignorati, al massimo tollerati ( brutta parola che implica sempre una gerarchia, ovvero chi tollera si considera superiore, sopporta qualcosa che non piace o addirittura ripugna).
Di questo parla Z
ingari, il bel libro di A. Rita Calabrò, che fa seguito dopo ben sedici anni a un’altra sua pubblicazione sull’argomento Il vento non soffia più, edito da Marsilio nel 1992 e ristampato quest’anno nella collana sociologica da Ledizioni, Milano.
Partendo dalla considerazione che la grande maggioranza dei così detti nomadi è invece da tempo ormai stanziale, la Calabrò valuta con amarezza le modifiche avvenute nel ventennio intercorso dalla sua precedente indagine sugli accampamenti milanesi, nei primi anni novanta.
“A fronte di una politica di non accoglienza da parte nostra, di rifiuto del confronto, i rom si sono sempre più chiusi all’interno dei propri gruppi parentali e i campi sono diventati dei veri ghetti in cui la subcultura criminale si è diffusa cancellando tradizione, memoria e cultura.
Oggi con più convinzione di ieri sostengo che i campi vadano chiusi perchè rappresentano delle zone di contagio sociale, e uccidono l’identità, perchè l’identità vive soltanto nella contaminazione e nel confronto.”
Parole di una donna che ha il coraggio di guardare in faccia la realtà. Parole con cui, partendo dalla mia piccola esperienza in proposito, concordo pienamente.
D’altronde l’esperienza dei Sinti abruzzesi, la comunità meglio inserita in Italia, da cui proviene lo stesso Spinelli (Lanciano è la loro piccola capitale), ci insegna che quella dell’integrazione è l’unica via percorribile ed anche l’unica che permetterà in futuro una vera ambivalenza culturale.
La cultura delinquenziale non salvaguardia la tradizione anzi la uccide. Siamo davanti quindi a una doppia sfida per noi gagè e per gli zingari. Se non saremo capaci di mettere in discussione abitudini, valori e certezze pagheremo un prezzo molto alto, mettendo a rischio sicurezza e pace sociale.
Su questo argomento segnalo anche con piacere il bel libro di Isabel Fonseca,
Seppellitemi in piedi.
Best seller internazionale, è del 1995, ristampato di recente negli Oscar Mondadori. Cronaca di un viaggio di parecchi mesi all’interno delle comunità gitane dell’Europa dell’Est, pur essendo ormai sotto alcuni aspetti sorpassato dai nuovi tempi, aiuta a conoscere le origini e a capire i comportamenti e le tradizioni degli zingari.
Ma se volete realmente capire in proposito qualcosa di più, ascoltate la fisarmonica di Spinelli suonare Romanò suno, sogno di uno zingaro, con l’accompagnamento dell’orchestra sinfonica d’Abruzzo. Un miracolo d’integrazione; un segno di speranza per noi tutti.

Nel 1824, Aleksander Pushkin, realizzò il sogno di tanti intellettuali suoi contemporanei aggregandosi per un certo tempo ad una carovana di Rom-Sinti; compose poi il poema Tsygany (Gli Zingari), descrivendo la vita nell’accampamento come la risposta al desiderio di un mondo migliore:
Gli zingari in chiassosa folla / vagano per la Bessarabia / oggi sul fiume / nelle lacere tende pernottano, / come la libertà giocondo è il loro giaciglio...