A. Arslan - La Strada di Smirne

Editore: Rizzoli Milano, 2009
Recensione:
Luciana Tufani Editrice - Leggere Donna (n. 144)
gennaio-febbraio 2010

A cinque anni di distanza dal successo di “La Masseria delle allodole”, Antonia Arslan ci presenta “La strada di Smirne”, seconda tappa di una prevista trilogia che attraverso le vicende della famiglia Arsalanian allarga lo sguardo dall’immane tragedia del popolo armeno, alla catastrofe che negli anni venti travolse l’intera Asia Minore. I megali catastrofí, come la chiamano i Greci, ormai gli unici in Europa a ricordarla con dolore e paura. Ma cosa accade nel libro dell’Arslan e cosa accadde realmente in Turchia negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale?
Nell’estate del 1916, dopo due anni di persecuzioni e massacri, la gran parte della popolazione armena era stata sterminata. Gli uomini passati a fil di spada, fucilati, massacrati con pugnali e bastoni; le donne e i bambini, violentati e affamati, fatti morire di stenti lungo le vie infinite e polverose dell’Anatolia e della Siria, spinti in avanti verso il nulla fino allo sfinimento. Ma gli Armeni erano molti, troppi per il governo e troppo ricchi, colti e cristiani, peccati tutti imperdonabili. Quindi alcuni tra i tanti erano riusciti a salvarsi e tristi carovane decimate da inedia e malattie arrivavano alle porte di Smirne, dove si accampavano sfinite in cerca di un misero sostegno.
Tra loro Shuschanig e i suoi figli, unici sopravvissuti della grande famiglia, che protetti da amici fedeli, dopo una rocambolesca fuga da Aleppo, riuscirono a raggiungere Smirne, la grande città sulla costa, da dove si imbarcarono poi per l’Italia per raggiungere finalmente lo zio Yerwant, il grande medico che viveva a Padova.
Per loro la tragedia era finalmente finita, anche se per tutta le vita avrebbero portato nel corpo e nel cuore le tremende cicatrici del passato.
Per altri invece il peggio doveva ancora venire, nonostante per qualche anno sembrasse che le cose volgessero al meglio. I tanti bambini orfani erano stati raccolti e accuditi e gli Armeni superstiti pian piano trovavano nuove occupazioni per sopravvivere; qualcuno addirittura scelse di tornare nei villaggi aviti dell’interno. La persecuzione pareva finita e quella era in fondo l’unica patria che conoscessero.
Nel 1919 la situazione politica ebbe una brusca evoluzione: scoppiò la guerra tra la Grecia e la Turchia e inizialmente l’esercito ellenico avanzò vittorioso.
Smirne città multietnica, abitata da turchi, armeni, ebrei, ma soprattutto da greci presenti lì da più di 2000 anni, esultava alle notizie dei primi successi. Vivace, colta, cosmopolita aperta alle influenze occidentali, vi si parlavano molteplici lingue, non solo turco, ebraico e levantino, ma anche francese, perchè la Francia aveva molti interessi sul posto e nel grande porto le sue navi alla fonda erano sempre più numerose.
Una borghesia ricca ed evoluta mandava i figli a studiare nelle università europee, importava champagne e auto di lusso, frequentava i locali sul lungomare, i ristoranti libanesi, i grandi caffè in cui si faceva musica fino al mattino. Era bella la musica smyrnaika, originale e appassionata, simile a un blues nelle sue mille variazioni. Specchio fedele dell’ambiente in cui era nata, vi si fondevano temi greci e orientali in un fortunato melange, ma la sua stagione a Smirne avrebbe avuto vita breve.
Infatti reso audace dai successi, l’esercito greco osava troppo, spingendosi troppo lontano dalle sue basi. (Vecchia storia che ancora si ripeterà in futuro. I generali non hanno mai sentito parlare di Napoleone?) Non resse al contrattacco dei turchi e nella tarda estate del 1922 Smirne attonita e incredula si trovò stretta tra loro e il mare in un abbraccio mortale.
Ma ancora speravano i cittadini indifesi; c’erano tante navi straniere in rada, francesi tedesche, americane, non avrebbero osato assalirli davanti a loro, la loro stessa presenza era uno scudo.
Smirne contava mezzo milione di abitanti. Quando il fuoco dilagò la spiaggia e i moli si riempiono di disperati in cerca di un imbarco, ma le navi potevano accoglierne solo pochi e non avevano ordine di opporsi ai turchi, che invece avevano quello di distruggere la città.
Quindicimila, ventimila? Impossibile il conto dei morti nell’incendio. Anche i bambini dell’orfanatrofio con le bandierine americane strette in mano nella vana speranza di essere risparmiati e tutti gli altri personaggi del racconto dell’Arslan finirono nel rogo che distrusse insieme a tante vite una cultura millenaria.
Gli altri, i sopravvissuti furono cacciati fuori del paese, dovettero abbandonare tutto e rifarsi una vita altrove.
La Grecia con i suoi quattro milioni e mezzo di abitanti accolse un milione e mezzo di profughi. Le splendide isole dell’Egeo orientale fecero da ponte a questa carovana di disperati, Samo, Chio, Lesbo, Limno e poi finalmente il Pireo o Salonicco. Soprattutto Salonicco, la colta, la ventosa Salonicco che in pochi mesi raddoppiò il numero dei suoi abitanti.
Ecco fu questa la grande catastrofe, i
megali catastrofì.
Il nonno avvocato di miei amici tessalonicesi fece per anni il barbiere a Mirina prima di poter spiccare il volo verso il continente, ma si ritenne sempre fortunato.Troppa gente aveva visto sparire nel nulla negli anni precedenti.
Da allora la consapevolezza della morte di un milione e mezzo di Armeni é ben presente a Salonicco e le sterili polemiche negazioniste scoppiate ultimamente in proposito vi lasciano il tempo che trovano. Che importano le parole, quel che conta sono i fatti. Genocidio o crimine di guerra, non possiamo dimenticarlo, come non si possono dimenticare i 54000 ebrei tessalonicesi, la comunità in percentuale più alta d’Europa, sterminati dai nazisti.
Ritengo quindi che sia un grande merito di Antonia Arslan aver richiamato alla nostra memoria, a noi che ben poco sappiamo del Mediterraneo orientale e delle tragedie storiche che vi sono state consumate, i problemi di questa martoriata regione. Non é solo terra di vacanze; i crani sfondati dai calci dei fucili turchi conservati in semplici armadi nel monastero di Nea Moni, il muro che taglia in due l’isola di Cipro, il museo ebraico di Rodi e ora i tristi naufragi di stracolme carrette del mare davanti al porto di Mitilini ci raccontano ben altre storie, da non dimenticare.
A sera sul lungomare di Salonicco i profumi d’oriente escono dalle taverne illuminate e la rebetika, la vecchia musica smyrnaica, si diffonde dai Café Aman nei vicoli dell’interno; cercatela seguendo il suono dei bouzouki lontano dal traffico cittadino, ne varrà la pena.
Grazie quindi ad Antonia Arslan, per averci narrato assieme alla tragedia del suo popolo quella di Smirne e della sua gente.