S. Dunant - Le notti al Santa Caterina

Traduzione di Massimo Ortelio
Editore Neri Pozza - Vicenza 2009
Recensione:
Luciana Tufani Editrice - Leggere Donna (n. 150)
gen-mar 2011


Ferrara, autunno 1570. Le urla lancinanti che provengono da una cella del convento di Santa Caterina squarciano il silenzio della notte, turbando il breve sonno delle sorelle.
E’ Suor Zuana, la monaca speziale, a dirigersi a passo svelto verso la porta chiusa da cui proviene quel lamento straziante. Porta con sè I suoi rimedi, gli infusi di erbe medicinali che daranno sollievo e oblio alla fanciulla che trascorre la sua prima notte tra quelle mure estranee. Inizia così la storia di una amicizia femminile, che porterà infine alla liberazione della più giovane dai lacci di un impegno non scelto ma subito e sofferto, grazie all’aiuto e alla comprensione della compagna più adulta.
Oltre alle due protagoniste, un piccolo microcosmo tutto al femminile affiora dalle pagine del testo. Dalla reverenda madre superiore, alla responsabile delle novizie, dalla maestra del coro, vanto della potente abbazia, sino alle semplici suore e alle umili converse, le donne appaiono con caratteri e personalità ben definiti, ognuna con un suo chiaro ruolo nella storia.
Con questo libro, ambientato in un convento di monache benedettine qualche anno dopo il Concilio di Trento, Sarah Dunant, conclude la sua trilogia dedicata all’Italia rinascimentale. Dopo The birth bof Venus, e The Company of the Courtesan ecco Sacred Hearts, Cuori consacrati. Chissà perchè nella versione italiana il titolo è stato cambiato inserendo una pruriginosa allusione alle notti, per un testo che invece di certo pruriginoso non è.
Si tratta infatti di un bel romanzo storico, ben documentato come si evince dalla ricca bibliografia e, nonostante la lunghezza un po’ eccessiva e talune parti repetitive, di scorrevole lettura.
Il ritmo della narrazione è lento ma regolare; e davvero il ritmo sembra esserne la chiave. Il tempo del convento è infatti scandito dagli uffizi quotidiani, mattutino, prima, terza, sesta, nona, vespro e compieta: i riti e le preghiere che regolano la vita delle suore.
Ma che vita era in realtà, che esistenza conducevano queste creature tagliate fuori dal mondo, isolate dalle famiglie, precluse a ogni contatto con l’altro sesso, a ogni esperienza sessuale?
Secondo la Dunant, che per comprenderla meglio ha trascorso una settimana ospite in un convento nei pressi di Milano, era assai meno arida e penosa di quanto si possa oggi immaginare.
In quei secoli difficili infatti le donne non avevano alcuna possibilità di fare autonome scelte e finivano spesso per sposare uomini che non gradivano mettendo poi al mondo un eccessivo numero di figli, molti dei quali avrebbero presto pianto perchè morti in tenera età, correndo anch’esse gravi rischi per la propria salute. In tutte le classi sociali conducevano quindi esistenze brevi e travagliate.
Le monache invece imparavano a leggere e scrivere, organizzavano le attività e le produzioni del convento, in alcuni casi componevano musica e versi e gestivano la propria comunità quasi come una impresa indipendente.
Questo quindi è il pensiero dell’autrice. Ma, anche se è vero che la cultura media di una suora era certamente superiore a quella di una donna del popolo, parecchie altre sue affermazioni mi lasciano alquanto perplessa. La perdita completa della libertà personale, la sottomissione non solo fisica ma anche morale alla badessa e alle sorelle più anziane, l’estraneamento dalla vita reale, mi sembrano scotti talmente alti da pagare che nessun coro angelico, nessun orto dei semplici all’interno di un monastero, per quanto autogestiti, possano compensare.
Inoltre è risaputo che non solo nel ‘500, ma anche in tempi ben più vicini a noi, le gerarchie esistenti all’interno dei conventi erano ancor più ferree che all’esterno e le pressioni esrcitate sulle più giovani e fragili erano a volte devastanti. Le forme di autolesionismo, i disturbi nervosi, l’isteria, gabellati per estasi o misticismo altro non erano che sintomi di una sistematica opera di distruzione di personalità più deboli.

Si legga quindi con piacere e leggerezza il romanzo della Dunant, scritto con l’accortezza e l’abilità che caratterizza molte autrici d’oltre Manica, ma senza cercare di farne un manifesto femminista.