Julie Otsuka - Venivamo tutte per mare

Otsuka
Traduzione di Silvia Pareschi
Bollati Boringhieri,
Torino, 2012, pp. 143, euro 13,00
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Bello questo romanzo, bello e toccante, tra i migliori che io abbia preso in mano in questo ultimo anno. Non mi ha quindi stupita la notizia che la sua autrice, Jiulie Otsuka, abbia appena vinto il prestigioso Pen/Faulkner Award for fiction, per questo libro che negli USA sta diventando un vero bestseller.
L’autrice, di origini nippo-americane, racconta una storia semplice ma assai poco nota, la storia delle tante ragazze che nei primi decenni del Novecento vennero dal Giappone negli Stati Uniti come spose dei compatrioti che già da tempo lavoravano in California.
Matrimoni per procura, contratti solo con l’ausilio di qualche fotografia, che quasi mai corrispondeva all’originale, e di poche scarne informazioni, spesso fasulle o nel migliore dei casi arricchite e modificate.
In terza classe, su vecchi piroscafi ansimanti attraversavano il Pacifico, per trovare al loro sbarco a San Francisco manovali e braccianti induriti dalla fatica, al posto dei bei giovanotti che si attendevano (ma forse, in molti casi, la delusione era reciproca).
Spesso fin dalla prima notte, frettolosa e violenta, le loro speranze si infrangevano di colpo e la vita che le aspettava non era tale da riconfortarle.
La vita, la lingua, le abitudini del nuovo paese erano difficili, diverse e ostili; il lavoro nei campi o nelle case dei bianchi era pesante e faticoso. Certo avevano lasciato il Giappone per sfuggire alla miseria, ma a casa propria si erano almeno risparmiate le umiliazioni che dovevano patire all’estero.
Pian piano però, col passare degli anni e l’arrivo dei figli, per diverse famiglie le condizioni di vita miglioravano; almeno per le nuove generazioni, i ragazzi nati in America, si cominciava a sperare nella possibilità di una vita migliore. Ma non fu così e ancora una volta le aspettative si scontrarono con la violenza degli uomini.
Nel 1941 scoppia la guerra, il Giappone é il nemico principale contro cui si mobilita tutto il paese e i cittadini di origine nipponica vengono guardati con sospetto, dapprima emarginati, poi gli uomini vengono arrestati e rinchiusi in campi di concentramento da cui usciranno solo alla fine del conflitto. Una pagina triste e poco nota della storia americana, di cui l’Otsuki si é invece occupata anche nel suo libro precedente, “When the emperor was devine”, alla cui traduzione la Pareschi sta attualmente lavorando e che spero di poter leggere al più presto.
Il peso delle famiglie smembrate ricadde tutto sulle spalle di queste gracili donne dalla tempra d’acciaio, che per anni aspettarono i propri uomini, allevando bambini che non riconosceranno neanche i padri al loro ritorno a casa nel ’46.
Tutto questo l’autrice riesce a raccontarlo in un romanzo scarno di sole 140 pagine: otto capitoli di toccante poesia.
Al posto della narrazione in terza persona, o del classico io narrante, l’Otsuki ha fatto una scelta formale originale ma efficacissima:
“ Da anni- ha dichiarato- volevo raccontare la storia delle migliaia di giovani donne giapponesi, le spose in fotografia, che giunsero in America all’inizio del Novecento. Mi ero imbattuta in tantissime storie interessanti durante la mia ricerca e volevo raccontarle tutte. Capii che non mi occorreva una protagonista. Avrei raccontato la storia dal punto di vista di un NOI corale, di un intero gruppo di giovani spose.”
L’uso della prima persona plurale in tutto il libro é una trovata di grande effetto, in grado di fare emergere la voce malinconica e indistinta delle tante ragazze che avevano abbandonato tutto, famiglia, casa, paese per cercare una vita migliore che ben poche trovarono.
L’ottima traduzione rispetta lo stile lirico e visionario della Otsuki che ci ha dato con questo piccolo libro un’immersione struggente in uno universo femminile fatto di impegno, coraggio e sensibilità.
Dedicato a mille donne senza nome e senza volto, è anche un richiamo per tutti a tener sempre desta l’attenzione, non solo per la tutela dei nostri diritti, ma ancor più nei confronti di ogni forma di razzismo dichiarato o strisciante, mala pianta che non si riesce a estirpare.